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I was an american teenage Death Note user: la nostra rece del Death Note di Netflix

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Ogni volta che gli americani fanno il remake di un prodotto asiatico di successo, un cucciolo muore.
Ma non perché lo uccida Dio come una sorta di ritorsione nei confronti degli uomini che compiono un atto aberrante e contro natura o qualcosa del genere — andiamo, siete abbastanza grandi per saperlo, Dio non esiste, e se esiste non gli importa nulla di noi, altrimenti come spiegate tutti questi remake? — no, sono proprio i produttori di Hollywood che, dopo ogni riunione in cui decidono di fare il remake di qualche successo asiatico, vanno a festeggiare massacrando un cucciolo. Giuro che gliel’ho visto fare. Li eccita, fracassare la testa di un cucciolo indifeso è l’unico modo che hanno di farselo venire duro. È più forte di loro.

Dragon Ball, Bangkok Dangerous, Oldboy, Ghost in the Shell, potremmo elencarne per ore: non solo film orrendi, ma decine se non centinaia di cuccioli torturati e uccisi.

E ora è il turno di Death Note.

Chiamatemi cinico, ma all’inizio non ero così pessimista e niente affatto contrario. Certo, un altro cucciolo sarebbe morto, ma forse non sarebbe morto invano. C’era del potenziale, dietro a questo progetto, o almeno così credevo.

Tanto per cominciare, a produrre è Netflix, che non è che non abbia mai pestato una merda (anzi), ma parte con un grosso vantaggio rispetto a tante grandi case di produzione hollywoodiane ed è il fatto che conosce il suo pubblico: giovane, nel senso che ha generalmente meno di 65 anni, e appassionato, nel senso che compie ogni volta una scelta precisa e spesso estremamente settoriale su cosa guardare, che non accende la tv se non per vedere qualcosa che vuole vedere.
E come i piccoli studi che si specializzano in un genere, ma potendo spaziare fra tutti i generi esistenti, a Netflix hanno capito che è inutile diventare pazzi per fare contenti tutti: è molto più intelligente concentrare gli sforzi e gli investimenti per fare qualcosa che piaccia, ma piaccia davvero tanto, a una fetta molto precisa di pubblico. Non sempre funziona (inserire qui titolo dell’ultima cosa di Netflix che vi ha fatto vomitare, la mia è Defenders), ma il principio è quello.

Seconda cosa, dietro la macchina da presa c’è Adam Wingard, che non è ancora un regista di culto, ma è un regista bravo e un regista che ci piace. È un regista horror, ha fatto cose molto fighe e divertenti come You’re Next e The Guest, ha un ineccepibile gusto per la violenza e un punto di vista originale sui personaggi, incredibile ma vero, soprattutto quelli femminili. Anche lui almeno su una buccia di banana ci è finito, l’inutile sequel/reboot/remake di Blair Witch Project, ma ehi, se non possiamo fidarci neanche degli Adam Wingard, a chi lo mettiamo in mano un film come Godzilla VS King Kong?

Va’ là che regaz affidabile e coi piedi per terra.

La storia di Death Note, la faccio velocissima che tanto la sapete tutti, ruota attorno a un quaderno magico che se ci scrivi sopra il nome di una persona, quella persona muore. Tutto qui. Un dio della morte lo regala a un liceale giapponese tanto per vedere cosa succede e questi, come chiunque altro al suo posto, si fa prendere la mano trasformandosi in tempo zero in un serial killer con deliri di onnipotenza. Uccidi oggi e uccidi domani, ‘sta cosa attira l’attenzione delle autorità, e sulle tracce di questo assassino invisibile che si fa chiamare “Kira” (storpiatura alla giapponese di “killer”) si mette il miglior detective del mondo dopo Batman, tale “L”. Da qui in poi la storia si trasforma in una gara d’intelligenza tra Kira ed L, una partita a scacchi tra super-geni che, fondamentalmente, si parleranno addosso fino a uccidersi.

Quello che magari non sanno tutti è che in Giappone Death Note è una cosa piuttosto grossa e quando dico grossa intendo grossa grossa grossa. Un manga, una serie animata, due (tre? quattro? forse cinque) film, una serie televisiva live action e tonnellate di merchandising. È stato un successo commerciale con pochi precedenti, di sicuro il prodotto che ha definito il panorama anime-manga degli anni 2000, e, caso più unico che raro, un successo che superando barriere linguistiche e culturali è andato a colpire con la stessa identica efficacia anche l’Occidente, Europa e Stati Uniti in egual misura (che non è una cosa così scontata, visto che in fatto di robe giapponesi abbiamo gusti diversissimi).
Non è un capolavoro perché, dai, i capolavori sono altri, ma il suo successo è meritatissimo. I suoi autori sembrano aver scoperto la ricetta del racconto perfetto, che mischia con intelligenza folklore giapponese (il concetto degli dei della morte, gli shinigami), disagio giapponese (i quaderni della morte si usano davvero, solo che non funzionano) e una serie di tropi cari alla tradizione dei manga (i liceali dotati di qualità sovrumane) con un plot profondamente anglosassone (Kira e L sono in tutto e per tutto Moriarty e Sherlock Holmes, con la sola differenza che vediamo la storia dal punto di vista del cattivo); il tutto alimentato da una generica, trasversale sfiducia nelle istituzioni e una fantasia che solletica l’immaginario fascistoide di tutti noi: quella di prendere la giustizia nelle proprie mani, uccidere chi se lo merita, rendere il mondo un posto migliore.

Il discorso sull’inutilità dei remake lo facciamo tutte le volte ed è incredibile come ogni volta riusciamo a declinarlo in modo diverso, ma ecco i miei due centesimi sulla questione: qui nessuno dice che i ragazzi di Netflix avrebbero dovuto astenersi dal rifare Death Note in nome del “rispetto nei confronti dell’opera originale”, c’era la possibilità di tirare su due spicci senza fare troppa fatica e grazie a un’idea già collaudata e loro l’hanno colta; il fatto, semplicemente, è che di tutte le cose su cui si poteva capitalizzare, un prodotto come Death Note era forse quello che aveva meno bisogno di essere “tradotto” all’occidentale, perché gli occidentali che potevano essere raggiunti da quel tipo di narrativa erano stati già raggiunti.
Ma come, direte voi lettori più attenti, all’inizio avevi detto che ci credevi! E infatti ci credevo nonostante fosse un’idea del cazzo. Un’idea che Adam Wingard non si era scelto, ma che avrebbe potuto ribaltare in fase di realizzazione, trasformando l’ennesimo inutile remake che nessuno aveva chiesto in una rilettura nuova e alternativa, o anche solo un film abbastanza diverso da poter essere giudicato come una cosa a sé stante.

Effettivamente il Death Note americano è abbastanza diverso dall’originale da poter essere giudicato come una cosa a sé stante. Il problema è che è comunque inguardabile. Ha una personalità tutta sua, ma è una personalità di merda.

A chi lo dici.

Wingard, che si è fatto le ossa su horror personali, piccoli e indipendenti, si trova evidentemente a disagio con un soggetto calato dall’alto, sul quale non ha voce in capitolo, ed esegue un compitino precompilato che nei suoi momenti migliori (mutilazioni, fontane di sangue e corpi che esplodono) è una roba senza infamia né lode. Non aiuta un budget risicatissimo, che lo costringe ad ambientare l’intera storia, in teoria ad ampissimo respiro e dal sapore internazionale, in quattro interni in croce manco fosse un episodio di The Big Bang Theory, in cui la maggior parte degli avvenimenti accade fuoricampo, è descritta da terzi o, agghiacciante, viene vista dai protagonisti in televisione.

Gli attori umani non è chiaro se siano degli scarsi pazzeschi o solo degli scarsi medi penalizzati da dei ruoli senza senso e scritti col machete, mentre Ryuk, il dio della morte/demone ex machina/coro greco “interpretato” da Willem Dafoe, è un pasticciaccio di CGI poverinas che fa rimpiangere quello di gommapiuma del live action giapponese di 11 anni fa: è brutto, si integra male con l’ambiente, è quasi sempre in ombra, riducendo l’apporto di Dafoe, che pure ha prestato la propria faccia e la propria fisicità per la motion capture, a una banale lavoro di doppiaggio.

Ma il vero problema, alla fine, è esattamente quello che avete letto in giro: la sceneggiatura. Una roba imbarazzante che non vorrei neanche per il biopic del mio peggior nemico, piatta, piena di incoerenze, il cui problema principale non è di non essere abbastanza “fedele” al manga originale, ma di volerlo essere troppo, finendo per cercare di stipare in un’ora e quaranta di pellicola una mitologia gigantesca e una quantità sproporzionata di eventi.
Sceneggiatura su cui deve averci messo mano veramente chiunque, compreso il tizio che consegnava le pizze, riveduta, corretta e tagliuzzata decine di volte, a giudicare da quanto poco quagliano le cose tra di loro, ma che al momento di uscire porta le firme — reggetevi forte — del tipo che ha scritto il Fantastic 4 di Trank e i due (giuro, sono servite due persone!), di Immortals. Un campanello d’allarme o due questo avrebbe dovuto farlo scattare, #einvece.

E invece ecco il liceale Light Turner di Seattle, Washington, USA (nessuno sforzo verrà fatto per giustificare come possa una persona, in America, chiamarsi “Light”), forse il protagonista che ci meritavamo, ma di sicuro non quello di cui avevamo bisogno. Grazie a una serie di scelte di scrittura direi chirurgiche, capiamo fin dalle prime inquadrature che:

  • è un tipo molto intelligente, perché risolve delle equazioni di secondo grado, che per il sistema scolastico americano dev’essere praticamente come mandare un uomo su Marte;
  • è un tipo “sveglio”, perché vende i compiti ai compagni di scuola più trogloditi;
  • è un bravo ragazzo, perché quando vede un altro studente venire bullizzato dai giocatori di football cattivi tira dritto e fa finta di niente ma poi cambia idea quando la ragazza che gli piace si mette in mezzo per difenderlo e allora lui dice al diavolo e va a difendere lo sfighez pure lui. (Sulla ragazza ci torneremo dopo, ma si chiama Mia, è una cheerleader, ma è anche una ribelle: lo si capisce dal fatto che durante gli allenamenti da cheerleader fuma una sigaretta in slow motion, cosa che non si ripeterà più fino alla fine del film, ma tanto non serve perché è già stato stabilito che è una ribelle.)

Subito dopo, per rendere chiare le sue motivazioni e il tema del film, vediamo Light avere delle conversazioni molto spontanee con due figure autoritarie “deludenti”: prima parla col preside della scuola, al quale chiede di fare qualcosa per il problema del bullismo e questo gli risponde una roba tipo “sono un burocrate senza spina dorsale e non me ne frega un cazzo”; più avanti parlerà col padre, che è un poliziotto, al quale chiede perché non può semplicemente uccidere i criminali, che tanto è tutto un magna magna e se li processiamo tanto poi loro escono di prigione e vanno coi nostri soldi negli hotel a cinque stelle, al che il padre gli risponde “sì e poi mi disegno un teschio sulla maglietta e mi faccio chiamare il Punitore (presto su Netflix)”.

I tempi sono maturi perché Light trovi il Death Note, faccia la conoscenza di Ryuk, provi il Death Note uccidendo un bullo (che se stiamo a cercare il pelo nell’uovo si meritava sicuramente una scarica di schiaffoni, ma magari non di essere decapitato da un tir) e poi lo usi di nuovo per uccidere l’assassino di sua madre, un pirata della strada che non si è fatto neanche un giorno di galera perché il sistema è corrotto e bla bla bla. Step successivo, praticamente senza soluzione di continuità, Light usa il Death Note per fare colpo sulle ragazze: va da Mia e le dice, non sto esagerando, “ehi, vuoi vedere il mio quaderno che uccide la gente?” e Mia, da ribelle anticonformista con lo smalto nero, trova che la cosa sia effettivamente molto figa. Light e Mia si mettono insieme.

“Vuoi vedere il mio quaderno che uccide la gente?”

Light e Mia usano il Death Note per uccidere su scala mondiale criminali, dittatori, gente che usa il parcheggio per disabili senza averne diritto. Si fanno chiamare “Kira” in un abile tentativo di depistare l’FBI facendo credere di essere giapponesi (eh?!) e la popolazione si divide tra chi adora Kira come un dio e il padre di Light che pare l’unico in tutto il pianeta a trovare che ‘sta cosa di uccidere la gente senza processarla sia un filino esagerata. Iniziano i primi screzi tra Light e Mia, perché Mia è comprensibilmente ubriaca di potere e userebbe il quaderno pure per uccidere chi spoilera Game of Thrones, Light invece è un pagliaccio e ci tiene tantissimo che la gente continui a vederli come “i buoni”.

Nel frattempo ha fatto il suo ingresso “L”, il miglior detective del mondo dopo Batman, un sedicenne vestito da ninja e la peggiore imitazione di Benedict Cumberbatch in Sherlock che si sia mai vista — e io di Sherlock ho visto anche la porn parody. L capisce in 13 secondi che Kira è Light (sbagliato: Kira è Mia, ma questa cosa non sembra essere stata notata da chi ha scritto il film) ed essendo che a questo punto tutti i giocatori in campo sono intelligenti strateghi e fini pensatori, le cose si risolvono ogni cinque minuti a pizze in faccia, sparandosi addosso, con gli inseguimenti in auto, col parkour.

Si arriva dunque al climatico finale in cui Mia e Light vanno assieme al ballo della scuola anche se ormai non si piacciono più tanto, qualcuno ricorda agli autori di Immortals e di Fantastic 4 che quello che piaceva alla gente di Death Note erano i duelli di intelletto e i piani intricatissimi e super machiavellici e, visto che ormai è tardi per i duelli di intelletto, Light improvvisa, dal nulla, al minuto 70 di un film che fino a quel momento lo aveva descritto come uno poco meno ritardato dei suoi compagni di scuola, un piano intricatissimo e super machiavellico per lasciarsi con Mia in modo che lei cada da una ruota panoramica (!!!) e nessuno sospetti più che lui è Kira. Il piano funziona a metà, perché Mia muore, ma non solo L ha la conferma che Light è Kira, ma lo scopre persino quel tontolone con le basette da Elvis del padre di Light.

Il film finisce con Light che, piangendo, spiega letteralmente ad alta voce la morale del film, ovvero che sembra facile dividere i buoni dai cattivi e ammazzare tutti i cattivi, ma la realtà è molto più complicata di così. Nel cielo compare la scritta “grazie al cazzo” e iniziano a scorrere i titoli di coda.

Mia, Light, vogliamo ricordarvi così: giovani, ribelli e anticonformisti.

Ora, vi ricordate quando dicevamo di giudicare il Death Note americano come una cosa a sé stante? Vale ancora e anzi, questi fanboy saputelli che vogliono dimostrarci che il film di Netflix è peggiore dell’originale perché non ci assomiglia, a me sembra stiano un po’ mancando il punto. Al contrario, il film di Wingard raggiunge il suo peggio proprio quando vuole, di punto in bianco, assomigliare all’originale. Perché non è la sua cosa, perché non è il suo mondo, perché, a meno che tu non sia Takashi Miike, non puoi prendere attori in carne e ossa e fargli sparare pose da manga. E soprattutto, una volta che hai stabilito delle regole, non le puoi cambiare a metà strada perché ti fa comodo.

Esempio: la premessa del Death Note originale è che tutti i personaggi coinvolti, anche i più stupidi, sono dei geni. Quella del remake pare tranquillamente essere che sono tutti deficienti. O comunque: impulsivi, imprudenti, che agiscono senza pensare, fanno cazzate. Tutto sommato, non è una scelta sbagliata a prescindere, è perfettamente in linea con l’idea occidentalissima dell’eroe tragico dominato dalle proprie passioni e, soprattutto per chi conosce a memoria la storia originale, rischia quasi di rivelarsi un punto di vista nuovo, interessante. Ma allora portala fino in fondo questa intuizione! Raccontami la storia di un gruppo di persone che si trova tra le mani il potere di un dio e non sa come gestirlo, non trasformarmi Light Turner in un genio negli ultimi 20 minuti perché serve un finale pirotecnico.

“Te l’ha mai detto nessuno che stai seduto come un coglione?”

Poi vabbè, potremmo discutere fino allo sfinimento su come la stessa trama, indirizzata allo stesso pubblico di adolescenti, sia stata declinata in modi così diametralmente opposti, un thriller filosofico che si interroga sul significato di “giusto” e “sbagliato” da un lato e un teen drama dall’altro. Su come i giapponesi si siano inventati un nuovo modello di (anti)eroe, il genio del male popolare perché va strabene a scuola, mentre gli americani non hanno avuto altra scelta che ripiegare sulla solita trita epica dell’outsider. Su come gli americani siano degli irrecuperabili bigotti e moralisti del cazzo, pure quando vogliono fare i trasgressivi, e non siano in grado di immaginare un protagonista che commetta azioni deplorevoli. Di come, tanto per cambiare, il ruolo di cattivo alla fine spetti alla fidanzata stronza e manipolatrice che prende tutte le decisioni, si sporca le mani e viene punita dal protagonista perché non lo ama abbastanza da rinunciare al potere del quaderno per stare con lui. Ma preferisco lasciare chiunque di voi conosca bene la serie originale con un quesito che trovo molto più urgente e attuale: a voi non ha fatto mega ridere ‘sta cosa di Light che è diventato eterosessuale?

L’originale Light Yagami: l’unica cosa che odia più delle donne sono i bottoni dei pantaloni

DVD-quote:

“Death Note. That, not.”
Quantum Tarantino, i400calci.com

>> IMDb | Trailer

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